…. il compito di chi se ne prende cura ……
Con il termine inglese “Caregiver“, si intende letteralmente “chi si prende cura”.
Può riferirsi ai familiari e in questo caso si parla si , caregiver naturale, piuttosto che di professionisti, infermieri, badanti, assistenti domiciliari, OSS, ognuno con le sue specificità.
Al di là delle singole competenze, a ciascuno è richiesto, per ruolo, di
di farsi carico del benessere della persona che necessita di cure “in una condizione malattia temporanea o permanente”.
La cura prende forma in termini materiali, pulizia, igiene, somministrazione farmaci, ma anche psicologici, presenza affettiva, compagnia e sostegno.
Occupandomi da tempo di formazione per “caregiver” professionisti e gruppi di sostegno per familiari di malati con patologie croniche e degenerative, ho modo di condividere oltre il carico e la fatica fisica, anche l’aspetto emotivo e l’estrema importanza di un supporto psicologico, come momento ed opportunità di dare voce alle emozioni , ai rifiuti , alle frustrazioni, non ultimo alla perdita.
L’esperienza della cronicità e della progressiva involuzione, propria delle demenze, è fortemente condizionante la vita del nucleo familiare o di parte di esso richiedendo anche importanti cambiamenti di stili di vita.
Nel caso si tratti di un professionista, oltre un’adeguata preparazione sanitaria, è opportuna anche una psicologica, in quanto oltre al paziente, si rende fondamentale il rapporto che viene creato o non creato con la famiglia dell’assistito.
Un aspetto, quest’ ultimo, delicato e complesso, in quanto dando per presenti le competenze tecniche, è la relazione di fiducia, collaborazione, stima, il reciproco rispetto, ognuno per i propri ruoli, a fare la differenza.
Ci sono professionisti che si integrano nel tessuto familiare permanendovi anche per lungo tempo, altri dalla rapida e frequente sostituzione.
Ci sono nuclei familiari che, anche dopo momenti di grandi difficoltà, riescono ad accettare al proprio interno, la presenza di terzi, comunque estranei, e riconoscerne l’impegno e la disponibilità ed altri per i quali “nessuno va mai abbastanza bene”.
Il ricorso ad un elemento esterno al proprio sistema-famiglia, spesso rimanda a vissuti di inadeguatezza, di impotenza, di colpa, per non potersene occupare in prima persona ed in modo continuativo, inoltre, quando si “paga, e non poco, si ricerca il meglio!
E’ reale che talvolta, questo meglio è piuttosto limitato; altre si avvicina alla richiesta, ma si potrebbe avere ancora qualcosa in più !
Una cosa è certa: in questa non facile dialettica, qualunque sia il caregiver, il malessere fisico e o psichico del caregiver, ricade sul paziente, che lo percepisce per l’estrema condizione di fragilità in cui si trova.
Il caregiver è esposto, per la natura del proprio servizio, al rischio di alti indici di stress fino al burnout.
E’ fondamentale, pertanto, che si prenda cura di sé per non esaurire le risorse emotive e fisiche nell’interesse del paziente ritagliandosi anche piccoli spazi, alla stregua di una sana boccata di ossigeno.
Concedersi delle brevi soste, non è egoismo, ma opportunità per alleggerirsi ed essere più disponibili quando ci si trova ad essere operativi.
Mediamente tre quarti della giornata del caregiver sono assorbiti dall’assistenza e l’impegno aumenta con l’aggravarsi della malattia. Nelle situazioni in cui il malato è in uno stato avanzato, il tempo libero è ancora più ridotto.
Mi piace ricordarmi e ricordare che per il malato, il caregiver è come la madre per il neonato. Potrebbe il piccolo sopravvivere senza di lei?
Di certo, per la famiglia, trovarsi a fare i conti con un congiunto-marito o genitore-i cui comportamenti risultano non avere nulla a che vedere con il modo di pensare e di porsi che lo hanno contraddistinto i n buona salute, tanto da renderlo irriconoscibile ai loro stessi occhi, è molto angoscioso.
E’ questo uno dei motivi per cui anche i familiari più prossimi è opportuno cerchino un aiuto anche attraverso il confronto con altri che si trovano a vivere esperienze analoghe.
Se manca la consapevolezza del danno indotto dalla malattia, dominano frustrazione, rabbia, risentimento, incredulità, colpa, eccessivo coinvolgimento, depressione, rischio di leggere le reazioni come dispetti e provocazioni, caricando il clima domestico di tensione.
In questo caleidoscopio emotivo, si può oscillare tra la negazione: “non può essere” e l’estrema impotenza e dolore per “un tempo e una persona che sono stati e non torneranno più”!
Conoscere i segni della malattia risulta fondamentale per comprenderne i comportamenti e dare un senso ad un quadro clinico che non concede appelli.
Quando il tempo volge al termine
La demenza è un processo degenerativo progressivo e ingravescente, che comporta negli anni una debilitazione anche del fisico, fino ad arrivare nella fase terminale, in cui il paziente, è totalmente dipendente da terzi per qualsiasi suo bisogno, alla pari di un neonato che non può sopravvivere se manca qualcuno che si occupi di lui.
Davanti a queste condizioni, la perdita e il lutto vengono elaborati molto prima, nel corso della malattia, quando, il confronto tra presente e passato del proprio caro diventano sempre più distanti.
E’ un dolore sordo, lento che, in molte situazione, vede nella morte, l’atto liberatorio, di un Calvario che ha accomunato famiglia e malato per molti anni, dove la sofferenza lascia il posto ad un ricordo “dolce e tenero” dove ciascuno approda alla pace.